Come nasce la maschera abruzzese ideata dal geniale guardiese Fabio Di Cocco? Quali sono i tratti più significativi del carattere del personaggio?
Proviamo a definire tutto questo sulla base di quanto lo stesso ideatore ci ha riferito.
Quelli che un tempo sono stati giovani ricordano una storia che i vecchi di un tempo usavano raccontare. La storia, forse (o quasi) leggendaria, narrava di un fraticello del convento dei Cappuccini di Guardiagrele.
Il frate, laico e ancora abbastanza giovane, aveva tra gli altri compiti quello della questua domiciliare nel paese. Era per questo da tutti identificato come “lu frate circatare”, il frate questuante, e per la sua abilità nell’assolvere al compito, tale rimaneva nonostante venisse saltuariamente sostituito da altri confratelli.
Questo frate girava a piedi per le case e le botteghe del centro e per i casolari delle contrade chiedendo un’offerta per il convento. Il suo sorriso, la sua mitezza e gentilezza facevano sì che pochi si tirassero indietro. La raccolta in centro città consisteva prevalentemente di piccole somme in denaro ottenute attraverso consueti e piacevoli convenevoli; nelle contrade, invece, il frate riceveva più che altro generi alimentari che riponeva nella bisaccia a spalla. Nelle contrade la raccolta era più pesante e le distanze da percorrere maggiori ma questo non gli impediva di trasportare felicemente il fardello ringraziando il Signore lungo tutta la strada.
L’abilità che tutti gli riconoscevano si manifestava in particolare nelle visite presso le case signorili. Quando si presentava alla porta veniva subito invitato ad entrare e ad accomodarsi, cosa che lui faceva volentieri anche per potersi riposare qualche minuto. Il frate sceglieva oculatamente l’orario per queste visite e, mostrando modestia nel disdegnare di accomodarsi nel tinello, si infilava velocemente in cucina dove fervevano i preparativi per il pranzo. La padrona di casa provvedeva a consegnargli un’offerta in denaro, solitamente abbastanza consistente e lui, secondo le regole della buona educazione, si intratteneva per scambiare quattro chiacchiere e per rifocillarsi consumando uno spuntino. I discorsi venivano fatti volutamente ruotare su quanto stava assaggiando o sul bendidio che lo circondava e li inframmezzava con profondi sospiri su quanto sarebbe stata gradita quella gallinella già spennata per il brodo della imminente festività o quel coniglio appena spellato in occasione dell’arrivo del padre provinciale. Non si salvavano i dolci nelle ricorrenze e neanche i ritagli di carne meno pregiata che rischiavano di essere scartati. Dopo aver ricevuto denaro e alimenti, poco prima di congedarsi, abilmente tirava fuori la ricorrenza imminente della morte del padre o del marito della signora, ben sapendo che alla sua domanda “Ni ji li faceme dice na bella messe a la bonàneme di don Giovannine?” avrebbe corrisposto un’offerta aggiuntiva.
Quando si presentava nelle botteghe riusciva comunque a venir via con qualcosa, piccoli utensili o attrezzi da cucina. Entrava pure nelle osterie dalle quali veniva spesso fuori con un bottiglione di vino che talvolta era un fiasco più difficile da occultare in bisaccia.
Insomma, di quel fraticello non si ricorda bene il nome ma in molti continuano a perpetuarne il soprannome: ovviamente “fra Pije” in onore della sua abilità nelle operazioni di approvvigionamento. C’era poi chi pensava che questo fosse il suo vero nome, frate Pio, e quando accadeva che lo chiamassero in questo modo lui capiva, sorrideva bonariamente e lasciava pure che continuassero ad equivocare.
In ricordo di quel personaggio più o meno leggendario l’appellativo è rimasto vivo e popolare perché si continua ad attribuirlo a tutti quelli che abilmente riescono a far propria la roba altrui, a volte illecitamente ma essenzialmente senza ricorrere alla violenza. Lo si diceva come benevolo rimprovero al bambino che in casa d’altri continuava a sbafarsi senza pudore i dolciumi che la padrona di casa ha offerto nel vassoio; si usava con disappunto per quelle persone che durante le fiere, con gesto da loro ritenuto simpatico, allungavano le mani nelle tinozze dei lupini o nei cumuli di noccioline; lo si usava come accusa nei confronti di veri e propri taccheggiatori che operavano tra le bancarelle dei mercati.
La maschera di Frappiglia non nasce come diretta rappresentazione dei protagonisti di questi casi ma, in un certo senso, va a costituirne la sublimazione bonaria e popolare al fine di consentire la visione in controluce di comportamenti di ben altro livello, sostanzialmente esecrabili, che però godono di una diffusa tolleranza, forse eccessiva. Pensate a quei ciarlatani che distribuiscono combinazioni vincenti nel lotto e poi si presentano a rastrellare compensi solo da quelli che casualmente hanno vinto. Considerate pure quei faccendieri millantatori che si offrono, con compenso anticipato, per interventi che mai eseguiranno ma di cui si attribuiranno comunque il merito in caso di esito fortunato. E non sarebbero da comprendere tra questi anche quei galoppini politici che assicurano favori durante le campagne elettorali? Si tratta di situazioni meritevoli di analisi dal versante etico, stante la difficoltà di ravvisare profili penali. E Mastro Frappiglia ci rende consapevoli di questo nostro atteggiamento tollerante non sempre giustificato. D’altronde siamo proprio alle fondamenta della commedia dell’arte: tutti, infatti, ci prendiamo a cuore le sorti del povero Arlecchino (non a caso ridenominato Truffaldino) che si caccia nei guai per voler servire contemporaneamente due padroni! Eppure non si tratta di un comportamento lodevole.
Ecco, allora, il nostro mastro Frappiglia, personaggio della commedia dell’arte che si muove abilmente tutte le volte che percepisce la possibilità di conseguire un tornaconto, cibo o denaro da convertire in cibo. La sua caratteristica è quella di essere qualificato mastro pur non essendo maestro in nessuna arte, se non in quella di millantare sfruttando le sue naturali doti di accattivante simpatia e coinvolgente affabilità.
Non si comprende bene se Frappiglia è consapevole o meno della sua incapacità operativa, tuttavia, per evitare problemi, lascia sempre agli altri la responsabilità di operare interventi diretti.
Il nostro personaggio potrebbe, per questo, essere definito un «appaltatore di incarichi», di “’mmasciate”, che riesce a portare a termine presentandosi come un deus ex-machina ma riservando a sé stesso il solo ruolo di intermediario, di portatore di «ambasciate».
Ecco, quindi, che non appena mastro Frappiglia viene a sapere che un certo suo conoscente ha un problema da risolvere, inizia a manovrare per entrare in contatto con lui facendo sembrare che il tutto avvenga casualmente. Una volta informato della vicenda manifesta tutta la sua meraviglia perché non si è pensato subito a lui per risolvere la faccenda: è a tutti noto che egli sa e conosce, in qualsiasi settore, dalla salute, alla finanza, alla meccanica e agli affari di cuore. La sua specialità è quella di “pijature di feste” ossia di incaricato per l’organizzazione di feste e cerimonie nelle quali il compenso, almeno in natura, è garantito e a portata di mano. Diventa talmente convincente che alla fine si assicura l’incarico e sancisce l’accordo con le sue tradizionali clausole: “Compa’, sta ‘pposte! Ci pense ji’!”.
Il suo «ci penso io», però, non ha molto a che vedere con la proverbiale espressione meneghina di «ghe pensi mi». Il milanese pronuncia la sua frase quando è convinto di potere effettivamente eseguire l’incarico perché è in grado di agire personalmente con la competenza e l’abilità che riconosce a sé stesso; il mastro Frappiglia, invece, più sinceramente dichiara solo che ci pensa su, pur garantendo in ogni caso il buon esito del suo intervento. Solitamente si fa consegnare un anticipo del compenso e poi cerca di trovare chi è in grado di intervenire efficacemente. In caso di esito positivo (a qualsiasi motivo dovuto) si ripresenta per il saldo, pattuito o meno, attribuendosi ogni merito.
La maschera abruzzese ricorda evidentemente altri personaggi della commedia dell’arte quali, ad esempio, Arlecchino o Brighella, figure di servitori dotati di una certa furbizia popolare, che non disdegnano l’inganno ma si dimostrano spesso temibili pasticcioni. Mastro Frappiglia, invece, si discosta manifestamente da questi caratteri perché dimostra una scaltrezza di prim’ordine che utilizza per un tornaconto personale, pur restando nell’ambito di interventi operati a fin di bene. Il suo tallone d’Achille, come detto, sarebbe la scarsa capacità operativa ma riesce comunque a cavarsela grazie alla superba abilità nei rapporti interpersonali, nell’organizzare, dirigere e controllare i lavori. Nessuno lo ha mai visto sporcarsi effettivamente le mani ed è questo che gli fa meritare a buon diritto la qualifica di «maestro»!
Ultimo aggiornamento ( 17 Gennaio 2023)